Appoggiava delicatamente le mani lungo quegli ottantotto tasti, le dita lunghe, ossute e bianche sfioravano con armonia quel pallido avorio, quelle nere incastonature, quei lucidi tasselli.
Non aveva uno spartito, non una traccia, non una partitura eppure la sua musica era così limpida, così euritmica, così armoniosa.
Suonava dolcemente quella tastiera, quei blocchetti in abete smaltato incastonati gli uni dentro gli altri, pizzicando quelle corde nascoste nella pancia dello strumento che sputavano fuori chi un do chi un la, che messi insieme davano origine a qualcosa di celestiale.
Eppure non gli andava bene. Così si fermava. Ricominciava da capo, e da capo. Le dita a volte si ingarbugliavano, a volte premevano involontariamente due tasti dando origine ad una sbavatura. No, non andava bene. Voleva la perfezione, voleva che le note che si disponevano nello spartito che aveva in testa fossero perfette, ognuna al suo posto, ognuna doveva uscire nel tempo giusto, al momento giusto.
Si fermava spesso. La schiena inarcata su quello scomodissimo sgabellino, le maniche della camicia bianca leggermente tirate su per lasciare la massima flessibilità ai polsi che dovevano far zampettare le mani rapidamente lungo quella pista di pattinaggio, libere nella loro danza.
Non un metronomo a scandire il tempo, non un orologio a misurare le ore che dedicava alla sua passione, alla sua musica.
Eppure non gli andava bene. Perché voleva la perfezione, perché voleva la magnificenza più assoluta della musica, perché premendo quei freddi bottoni voleva sentirsi un dio.
Sì un dio. Con la sua musica voleva fare tante, troppe cose. Voleva parlare con le sue note, buttare fuori tutto quello che aveva dentro, tutte le emozioni che nella sua misera vita aveva vissuto, l’amore, la gioia e il dolore. Voleva che tutto ciò uscisse dalle sue dita e che mentre suonava chi lo ascoltasse provasse esattamente quel che provava lui. Ecco perché non aveva uno spartito, non una traccia, non una partitura.
A suonare era direttamente la sua anima.
Era timido. Solitario e sognatore. Viveva la sua vita di tutti i giorni con rispettosa discrezione, ma aveva vissuto anche lui le sue esperienze, le sue gioie e i suoi dolori. Si era innamorato, era stato rifiutato, si era innamorato nuovamente ma aveva avuto troppa paura di fallire ancora. Aveva amici, parenti (che non lo incitavano troppo in questa sua passione per il piano anche se ne coglievano il talento) e un gatto che si accucciava sul bordo dello strumento mentre suonava senza mai disturbarlo.
La sua musica era tutto per lui. E nel tardo pomeriggio o alla sera si rifiutava perfino di cenare pur di attaccarsi alla sua bestia, al suo amore eterno, al suo pianoforte.
Nessuno lo udiva nella mansarda semibuia in cui si esibiva.
Eppure lì dava il meglio di sé.
Con la sua musica raccontava, si raccontava, narrava storie, emozioni, racconti di fantasia, esperienze vissute, turbamenti, tempeste. Quando pensava al suo amore premeva i tasti con delicatezza quasi come se in quel momento toccasse il corpo di una donna, come se in quel momento stesse carezzando dolcemente il volto della sua amata. Allora si infiammava e cominciava a premere i tasti con più foga, con più grinta come se le emozioni andassero in crescendo, come se quella donna fosse lì con lui e la dovesse corteggiare. La sua musica diventava allora trionfale e le note uscivano come proiettili da mitragliatrice, per poi affievolirsi nuovamente, e poi ancora forte e poi ancora debole. Con la musica rappresentava i baci, gli abbracci, i profumi, la voce di quella donna.
Ma non suonava solo l’amore.
Aveva delle note per tutto. Note per descrivere le emozioni, note per descrivere i colori, note per descrivere la bellezza, note per descrivere il silenzio. C’erano suoni per descrivere la pioggia che ticchettava sui vetri, suoni per l’alba e per il tramonto, suoni per l’inverno e per l’estate. La musica era lieve quando si rilassava pensando che un’altra giornata era andata e che finalmente si era ricongiunto con il suo strumento. Ma poi pensava a qualcosa di triste e la sua musica diventava malinconica, a volte perfino tetra. Sapeva raccontare con le note. E la sua melodia poteva essere semplice, anche un motivetto ripetuto, o una complicata sinfonia.
Ma spesso non andava lo stesso bene. E la sua delusione causata dalle sue stesse imperfezioni diventava musica pure quella. Era come se un muto parlasse premendo quei freddi pulsanti seduto sullo sgabellino, come se un paralitico potesse finalmente correre, come se un cieco potesse finalmente vedere.
In realtà ogni tanto qualcuno lo ascoltava dalla strada. Pensava che fosse semplicemente la registrazione di qualche concerto e passava oltre, oltre quella finestra aperta che dava sulla via.
Ma a lui non importava. Era l’unico spettatore di sé stesso. Suonava per lui non per gli altri. E nonostante si fermasse spesso, nonostante ci fosse sempre qualche diesis fuori posto era contento. Soddisfatto di riuscire finalmente ad esprimersi.
E quando ormai stremato, quando ormai aveva detto tutto quel che poteva dire con la sua musica, con le sue note, con i suoi suoni chiudeva la tastiera. E tornava a vivere la vita, impaziente di poterla nuovamente suonare, con nuove note, con nuove armonie, con nuove melodie.
L’arte, la musica, la scrittura. Sono lo specchio dell’anima. E chi con una tastiera ad ottantotto tasti e chi con una qwerty si sfoga, ama, vive. Non lasciate la bellezza marcire dentro di voi, ma buttatela fuori, urlatela al mondo, suonata o scritta non importa… basta una tastiera.
Non so se hai mai letto Il Soccombente di Bernhard. Il tuo post mi ha fatto tornare alla mente quel libro magnifico. Te lo consiglio.
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Grazie del consiglio. Mi fa sempre molto piacere quando mi vengono consigliati dei libri. Lo inserisco nella lista di libri da leggere ;)
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Bel racconto :))
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Grazie :)
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sublime. Oggi sono tristissima per via delle nuove scosse di terremoto ad amatriciana e in Abruzzo. Penso a quella povera gente che sta E spiando chissà’quali colpe di chissà’quali padri…. Sembra impossibile l’accanimento contro la gente di quei luoghi. E io qui niente. Neanche un fregato. Sia ben chiaro non lo vorrei. Non sono preparata se la terra dovesse sconquassarsi anche qui. Ma il mio animo E’tristissimo in empatia con loro. E prego Dio perche’si aiuti e non si accanito. E così il tuo pezzo su questo ipotetico e sconosciuto(o conosciuto) pianista e in coi su chi come noi ama invece scrivere… mi ha dato un po’ di respiro…. E ti ringrazio
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Nel mondo succedono tante cose brutte e tristi. Non dobbiamo farci carico noi di queste sciagure ma stare vicino a chi soffre. E soprattutto non dobbiamo tenerci dentro nulla ma come questo pianista lasciarci andare premendo la tsstiera.
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