Una storia da non credere – In ricordo di Vittorio Zucconi

È iniziato tutto così, come una cotta nei confronti di una ragazza.
Da un giorno all’altro.
Non si po’ definire cotta dai, nelle cotte provi un certo desiderio nei confronti di una qualche femmina che ti circonda, ammiri il suo corpo, ti conturba la sua simpatia. Desideri portarla a letto. Ma la mia cotta non fu per una giovane collega di studi.

Io mi innamorai dei giornali.

Era novembre 2008. In tutto il mondo si parlava dell’imminente elezione di Obama come presidente degli USA. Decine di immagini in tv, su internet, sui siti che allora si faceva ancora fatica a consultare con delle connessioni lentissime.

Poi c’erano loro. I giornali.

Una professoressa della scuola media ci invitò a comprarli. E comprarne tanti in quei giorni in cui il mondo stava cambiando radicalmente. Mi ricordo le corse al mattino nell’edicola davanti alla scuola dove ne compravo tre o quattro. I soldi con cui avrei dovuto compare la merenda li spendevo in Gazzetta, Corriere e Repubblica.

Me lo ricordo il mio bruttissimo feticismo per i giornali. Li coccolavo come se fossero qualcosa a cui dare il mio affetto. Carezzavo la copertina. La carta ruvida mi piaceva scorrerla tra le dita, sentire il foglio diventare più liscio sulle immagini. Poi odoravo il profumo della carta fresca, che ricorda quello di una cantina di vini, un po’ più forte nelle immagini grosse, un po’ più acre.

Leggevo. Con fretta. Mi appassionava avere le news sotto le mie mani. Leggevo i titoli, una passione smisurata per gli editoriali: testi brevi ma pieni di dettagli con valore.

Arrivavo agli articoli. Piccoli, medi, enormi, oltre la pagina erano tutti miei. E in classe ero in penultima fila a passare le ore al posto di giocare con il cellulare (come faceva qualche mio compagno) spendevo il tempo a leggere e leggere i giornali.

Mi appassionai ad un nome: Vittorio Zucconi.

Lo leggevo con avidità. Sempre dettagliato ma con quel taglio che ti faceva scappare un sorriso. Le sue parole scritte era come se qualcuno le stesse dicendo a voce alta, con il tono che sale e scende in base ad una vena satirica, ad una vena di umorismo o disapprovazione. Lessi molto i suoi piccoli pezzi, o anche quelli grandi, mi sentii come un ragazzo che stava in America mentre Obama gridava “Vittoria!” salendo sul palco davanti alla Casa Bianca. Vidi le sue parole come qualcosa che regalava emozioni, si coglievano i dettagli, anche i più piccoli, si capiva il tono di voce a parole scritte, le polemiche del suo sfidante e il tono calmo ed elegante dello stesso Barack mentre faceva il giuramento, le urla di decine di afroamericani che si godevano la vittoria per le strade di New York. E non lo vedevo dai telegiornali, non lo vedevo dai video che apparivano in televisione nelle maratone di edizioni speciali.

Lo capivo dalle sue parole.

Le parole di Vittorio. Così mi appassionai. Leggevo sempre lui per primo, cercavo il suo nome sulla Repubblica.

A casa poi feci una bella scoperta. “Storie da non credere”. Questo è il titolo del libro che trovai in un mare di scritti per bambini sconfinati nella mia libreria.

Lo lessi tutto d’un fiato. E da lì lo presi come esempio come stile di scrittura. In quel libro vi erano, anzi vi sono perché quel libro è più vivo che mai proprio nella mia testa, decine di storie con un finale imprevedibile. Storie di una cronaca americana scolpite da una fervida immaginazione, da una fantasia capace di cambiare la situazione in 30 fai 40 battute. Storie imprevedibili, ma piene di ironia, sberleffi, emozioni e finali che finiscono sempre ed esclusivamente come non te lo aspetti.

Lessi altro di Vittorio, ma “Storie da non credere”, mi prese la mia fervida immaginazione e intrigò più delle decine di reportage che seguivo scritti da lui. Poi lo seguii in televisione, sempre sui giornali e pure per radio.

Ma arrivò il 2011. Ero già al liceo. La mia professoressa delle medie mi chiamò tutta entusiasta. La sera vi era Zucconi a Parma. Mi portò lei in prima fila in una serata dedicata alle decine di servizi che aveva fatto in Italia, poi in Russia e nel magico mondo dell’America.

Io avevo scritto la tesi di terza media su di lui. Avevo scritto decine di recensioni dei suoi articoli.

Mi avvicinai.

Con Storie da non credere. Che autografò.

E poi gli dissi “Da grande voglio fare il giornalista”.

C’era anche mia mamma.
Lui guardò lei. E le disse: “Mi raccomando se mai prenderà il titolo gli regali un cucchiaino d’argento”
Ci guardammo. Io, mia mamma e lui che sorrideva.
“Perché?”
“Per tutta la merda che dovrai mangiare. Mio padre lo regalò anche a me. Rigorosamente d’argento”

Sorrise.

Sorrisi anche io.

E non lo vidi mai più.

Dal vivo intendo. In tv e sulla Repubblica continuai a seguirlo. Ma il 25 maggio se ne è andato.

Vittorio oggi sarebbe il tuo compleanno. Saresti in America e staresti ridendo di quanto schifo fa l’Italia. Di quanto disagio marcia nella nostra politica, di quanto siano marci i nostri pensieri. Con il tuo sarcasmo, il tuo tono tranquillo e compiaciuto ci diresti di comprarci un cucchiaino. E non solo a chi scrive su un giornale. Vittorio, mi hai donato lezioni di stile, lezioni di brevità ricca di emozioni, lezioni di reportage di come cambia il mondo. Ne prendo molto, molto esempio. E oggi che sarebbe il tuo compleanno ti faccio questo regalo. Un post su Facebook.

E tu potresti dire: “Ma che regalo è?”
Il mio regalo.
Che dopo anni di sofferenza nelle aule di Medicina ho scoperto il mondo. Ho scoperto la bellezza della scrittura e della stessa fantasia, dello stile e dei mille pensieri belli che mi hai donato. Che ci hai donato, che hai donato a tutti, ad una generazione di quelli che potremmo definire “Futuri giornalisti”. E se un giorno lo sarò scriverò le mie storia pensando a te.

E sarà una storia da non credere.

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