Dolore in poche parole

<È cattiva la gente che non ha provato dolore. Perché quando si prova il dolore, non si può volere male a nessuno>. Leggeva questo l’altra sera. Un ragazzo di 24 anni. Lo leggeva nelle storie di Whatsapp, quelle che fluiscono veloci, quelle che alterano la monotonia delle visualizzazioni in pura quotidianità. E cosa sia il dolore è diventato un ronzio nell’alveare di immaginazioni che gli conturbano il buongiorno, che sproloquiano nelle fragili fisionomie della sua anima. Esuli spiriti che nella psiche lo discostano dalla realtà e lo riconducono nel passato. Nella più deragliata mente il ragazzo gira. E ne è felice. Felice perché non ha il coraggio di sobillare la fantasia con il degrado di augurare il dolore a qualcuno. Semplicemente perché il dolore l’ha visto. In abiti civili o con indosso una divisa non solo l’ha visto: l’ha provato.

Un ragazzo.

Il dolore lo ha assaggiato per la prima volta all’incirca a dieci anni. Un suo stretto parente, un cugino era deceduto in un incidente e si faceva una cerimonia in suo ricordo. Ed è lì che questo ragazzo ha provato per la prima volta il dolore. Vide la disperazione negli occhi di suo zio, quando il nome del figlio veniva pronunciato, una disperazione infettiva, le lacrime più affliggenti, una voce afasica e balbettante di dolore. Considerate quando per la prima volta un bambino prova dolore. E non lo prova perché il cd di un videogioco si è rigato o perché gli è caduta una caramella in un tombino. Prova un immenso dolore quando vede una famiglia, in cui si sente parte integrante, disfarsi come una quercia che si incenerisce per la sofferenza della perdita. La perdita del futuro del senso stesso dell’amore di due persone, così vicine ma che per quell’angoscia così contagiosa avrebbe desiderato fossero lontane.

Un ragazzo che aveva paura del concetto di amore stesso perché lo aveva visto infrangersi, lo aveva visto correre via e desiderava ardentemente ripensare a questa sua visione, sognava di infrangerla. Appena maggiorenne, toccò l’amore e lo sentiva bruciare, lo provava in una grandezza inimmaginabile, amore che scorre come sangue, con il suo calore, la sua energia. E l’amore gli fu negato una altra volta. La ragazza su cui poggiava non solo la sua anima ma il suo futuro, su cui lo scambio di sguardi era un ardere di gioia percepì le cicatrici della sua psiche e prese le distanze. Quando lo vidi, per la prima volta si sentiva amato, e sprofondò in una angoscia inimmaginabile, forse banale, ma incompresa dal ragazzo stesso. Infelice è l’innamorato che assaggiò l’amore e poi gli fu negato. Volete chiamarla depressione. Chiamatela così. Io quel ragazzo l’ho visto combattere. Lottare. Ma andare avanti.

E quel ragazzo ha visto tanto dolore a sua volta. Provato da altre persone. Vedere la madre del più caro amico morire, vedere il punto di riferimento di una famiglia scomparire tra altre lacrime, scomparire per sempre. L’amicizia con il dolore ha un sapore diverso, più acido e sempre più lontano. Poi i viaggi in rianimazione, luogo in cui andava indossando una divisa, gli ha lasciato il segno. Non si dimentica la donna che abbracciava il medico che ha portato il suo ragazzo, il suo bambino in reparto, per ringraziarlo appena pochi secondi che gli annunciasse il suo decesso. La fine di un futuro, la fine di un amore ancora più grande stava per essere annunciata. Il ragazzo, che aveva massaggiato il cuore del coetaneo fino a quel momento, ha abbassato la testa e si è infilato veloce in ascensore. Non ha avuto il coraggio di osservare la scena ma solo il pensiero gli ha donato dolore. Ma sempre lì il ragazzo ha visto altre scene. Ha visto la madre che abbracciava il figlio in un coma irreversibile, che gli cantava la sua ultima ninna nanna prima che spegnessero tutto e nella morte donasse in un espianto il suo stesso cuore, per portare il sapore della vita in faccia alla morte.

Ma il dolore non si osserva, mi ha detto il ragazzo, solo in un reparto. Lo osservi anche negli occhi di una donna anziana che capisce che il suo ultimo viaggio verso l’ospedale sarebbe stato quello. In pieno possesso dei suoi pensieri, ma non del suo fisico. E l’idea di non sapere cosa ci sarà dopo, se la vita è solo un disegno di pixel che con la morte brucia, o se vi è qualcosa dopo, se tutto si scioglie come carta nell’acido o anche le nostre anime hanno una forma. Questo pensava il ragazzo.

Che ha visto il dolore. O meglio la parola dolore. In uno stato di Whatsapp. E ha scritto questo film. Con un lieto fine bellissimo. La consapevolezza di cosa sia il dolore, di come combatterlo, di come provare anche a sconfiggerlo ma soprattutto che la felicità sia essa stessa augurare felicità e non dolore.

Finisce così la storia di stasera. Una storia triste. Ma che vi faccia capire che quando augurate il dolore siete delle persone di merda.

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